Cenni storici
Come minacc... ehm, promesso, eccomi allora di ritorno con qualche nota storica. Non per inutile sfoggio di superflua saccenteria, peccato che - almeno spero! - non mi appartiene, ma soltanto per completezza nel discorso introduttivo, considerato pure che il forum è popolato principalmente di amici aeroplanari che probabilmente non si interessano molto di auto e relative competizioni, a differenza di quei due o tre che come me sono nati sotto un carburatore (che puzzava però come il famoso cavolo

) e sono cresciuti a pane e motori.
Il tutto è basato su oramai antichi racconti o letture varie, integrato con qualche data presa sul web, condensato e necessariamente tagliato il più possibile altrimenti diventerebbe troppo lungo e noioso; insomma io la racconto per come la so e in buona fede, ognuno ovviamente è liberissimo di integrare o correggere qualora lo ritenga utile ed opportuno. Per tutti quelli invece cui - e sono la maggioranza, me ne rendo conto! - non interessa premano pure il tasto "fast forward". [emoji1]
Primo gennaio 1968, circuito di Kyalami, Gran Premio del Sudafrica. La nuova stagione di Formula 1 si apre grossomodo così come si era conclusa la precedente, ovvero con l'inarrivabile Jim Clark a dominare sia in prova che in gara sulla Lotus 49 motorizzata Ford divenuta finalmente, oltre che velocissima, anche affidabile. Tutto sembra già scritto, già visto, sia dal punto di vista tecnico – con auto che sono semplici evoluzioni o persino le stesse dell'anno prima, così come pure i motori, oramai adattati alla cilindrata dei tre litri introdotta nel 1966 – che sportivo, con il timido allevatore scozzese che già alla prima gara mette una seria ipoteca sul suo terzo titolo mondiale.
E invece no. Il 7 aprile, in una gara minore sul circuito tedesco di Hockenheim, Clark perde la vita in un incidente la cui dinamica non è mai stato possibile chiarire. La Formula 1 piange il più grande pilota visto fino ad allora: conoscerà un altro talento di pari levatura soltanto negli anni '80, con Ayrton Senna.
Ma – è cosa risaputa –
the show must go on, che piaccia o meno. Ed ecco che una stagione (che rimarrà per molti aspetti comunque di transizione) con l'apparenza di uno stantio déjà vu conosce non una, ma ben due rivoluzioni epocali, la prima di carattere commerciale-economico, la seconda squisitamente tecnica: entrambe cambieranno per sempre la Formula 1.
La sponsorizzazione degli eventi sportivi, specie di quelli particolarmente costosi quali il "circo" della F1, è di fatto sempre esistita: talvolta in maniera discreta per non dire quasi occulta (vedi il caso di ricchi appassionati che finanziavano piloti o intere squadre), spesso in maniera più chiara e lampante, ma fino al 1967 si trattava di sponsor o partner tecnici legati comunque al mondo e al business dell'auto, quali fornitori di motori o componenti, carburanti, pneumatici, di cui comparivano piccoli stickers sulle auto coi colori nazionali, e che talvolta chiedevano la partecipazione dei piloti e delle squadre a determinati eventi, anche non strettamente sportivi, così come accade oggi in maniera amplificata.
Ma col 1968 le cose cambiano, e la Lotus ne è la perfetta rappresentazione: a maggio, in occasione della seconda gara valida per il campionato e senza il grande Jimmy, il team inglese schiera le auto non nel classico colore british racing green ma con una particolare livrea bianco-rosso-oro per enfatizzare il marchio del suo principale finanziatore, appartenente all'industria del tabacco. I cosiddetti "tabaccai" saranno da allora e fino agli anni novanta i principali "benefattori" delle squadre, pronte di volta in volta ad adattare i colori sociali e persino il nome del team a quelli del maggior finanziatore, Ferrari esclusa, che poco o tanto ha sempre mantenuto di base il colore da corsa nazionale.
La seconda innovazione, parimenti importante, ha per me un interesse decisamente maggiore, dato che è di natura schiettamente tecnica e ha influito per il 90% sulla mia decisione di affrontare il modello qui in esame: nel 1968 infatti viene introdotto in Formula 1 il fattore aerodinamico, che entro pochi anni acquisterà un'importanza persino maggiore della componente meccanica, nel bene e nel male, come ben sappiamo ai giorni nostri.
Fino ad allora infatti l'aderenza al suolo dell'auto veniva garantita (vabbé, garantita è una parola in effetti un pò grossa per le auto di quei tempi) soltanto dalla meccanica: telaio, sospensioni, pneumatici soprattutto (che a detta dei piloti che corsero in quegli anni erano piuttosto buoni rapportati ovviamente agli standard dell'epoca, seppure fossero gli stessi sia per l'asciutto che per il bagnato, oltre ad avere mescole talmente dure da poter essere utilizzati per più gran premi, mica per dieci giri come fanno oggi), oltre che naturalmente dalla massa e dalla conseguente forza peso – seppur ridotta – da essa generata.
Ma le ali che si vedono per la prima volta in F1 sulla Lotus alla terza gara (GP di Monaco) non sono in realtà – come qualcuno può ritenere – una prima assoluta: già si erano visti in passato timidi esperimenti aerodinamici, con bandelle o profili, ma si trattò di prove estemporanee, limitate ad alcune gare e senza un seguito. Inoltre le ali vere e proprie, capaci cioè di generare un'effettiva deportanza e non soltanto un semplice "drag" come lo chiamano gli anglossassoni (e che noi italiani, sempre prolissi, definiamo resistenza aerodinamica), già erano utilizzate in altre categorie automobilistiche: si ricordi, su tutte, la Chaparral 2F del 1967:
IMMAGINE INSERITA A SOLO SCOPO DI DISCUSSIONE e presa da
qui
Insomma, quel che desidero sottolineare è che una delle più importanti rivoluzioni tecniche che hanno cambiato la F1 non è un'intuizione geniale di un singolo progettista come in altre occasioni è capitato, ma piuttosto l'introduzione progressiva di un concetto che già era nell'aria (è proprio il caso di dirlo!), ma di cui fino ad allora la F1 sembrò non avere bisogno. Trattandosi però della massima espressione tecnica dell'automobilismo, allora come adesso, è subito un proliferare ed un'estremizzare di soluzioni, già a partire dalla gara successiva, al GP del Belgio, con la Ferrari progettata dal bravo ing. Forghieri che presenta un'ala posteriore a tutta larghezza, posizionata in alto quasi sopra la testa del pilota. Le altre squadre - chi più chi meno anche a seconda del budget – non stanno certo a guardare, men che meno la Lotus, con Chapman che "risponde" a Forghieri con un profilo alare posteriore ancor maggiore, montato più in alto e più arretrato, connesso addirittura alla struttura delle sospensioni posteriori; per bilanciare tutto quel carico – che consente tanto grossi quanto ovvi vantaggi di aderenza e quindi di trazione – viene modificato anche il muso dell'auto, con l'introduzione di altri due profili alari ben evidenti (uno per lato) e di due vistosi sfoghi per l'aria calda proveniente dal radiatore, che hanno la funzione principale di aumentare il flusso verso l'alettone posteriore. Nasce cosi la versione B della Lotus 49: un'auto veloce, leggera, sufficientemente affidabile, e che di fatto risulterà vincente sino al 1970.
Mi è d'obbligo qualche cenno anche al co-protagonista della storia, tutt'altro che secondario: mi riferisco al simpatico e baffuto pilota inglese Graham Hill.
IMMAGINE INSERITA A SOLO SCOPO DI DISCUSSIONE e presa da
qui
Spentasi anzitempo e in maniera tragica la stella luminosissima di Jim Clark, la squadra dipende ora dalla seconda guida, Hill appunto. L'inglese non ha certo il talento naturale dell'incommensurabile scozzese (d'altronde, che altri lo aveva?), ma è comunque un pilota veloce e di esperienza, che capisce di meccanica, dall'aria scanzonata e dotato del tipico humor britannico ma in realtà è un uomo completamente dedito alla famiglia e al lavoro, concentrato e attento, razionale e intelligente, sempre corretto, stimato nell'ambiente e dagli altri piloti. Nel 1968 il suo contributo alla vittoria della squadra è rimarcabile, con tre vittorie – compresa la cavalcata trionfale nel GP finale in Messico che gli consegna il suo secondo titolo mondiale – ed altri risultati di rilievo. E non che mancassero, anche in quella stagione 1968, i rivali di valore, nonostante la scomparsa di Clark. Tra i tanti cito a memoria quelli che secondo me erano i più forti: il sempre sfortunato neozelandese della Ferrari, Chris Amon; il suo coriaceo connazionale e campione del mondo in carica Denis Hulme, passato dalla Brabham alla McLaren; Bruce McLaren stesso, al volante della sua auto; l'intramontabile Jack Brabham e il talentuoso Jochen Rindt anch'egli su una Brabham; il giovane ma incostante belga Jacky Ickx su Ferrari; il fortissimo scozzese Jackie Stewart sulla Matra gestita da Ken Tyrrel.
Sono moltissimi gli aneddoti simpatici che lo riguardano, così come le sue innumerevoli battute e frasi celebri; personalmente questa mi piace molto, perché è poetica e in fondo compendia tutta la passione che l'automobilismo sportivo, pur nella sua pericolosità, racchiude:
"io mi paragono ad un artista. Il tracciato è la mia tela e l'auto il mio pennello".
Ma in fondo per Hill si tratta del canto del cigno; ha oramai quarant'anni, ci sono giovani e forti piloti che scalpitano, soprattutto l'anno successivo subisce un grave incidente sul circuito di Watkins Glen, ne esce vivo ma ha gravi fratture e ferite ad entrambi gli arti inferiori, evento che probabilmente avrebbe messo la parola fine alla carriera di molti altri piloti ma non certo ad uno caparbio come lui; memorabili a tal proposito le parole che mandò a dire alla moglie subito dopo l'incidente per tranquillizzarla: "ditele che sto bene ma per le prossime due settimane credo che non potrò portarla a ballare"

. In realtà la riabilitazione è assai più lunga, difficile e dolorosa, ma Hill si ripresenta regolarmente l'anno successivo al via del nuovo campionato. Da ora in poi però correrà soltanto con team privati od oramai non più competitivi – come la Brabham – e nel 1973 ne fonda anche uno suo, ma senza soddisfazioni, anzi: nel 1975 non riesce nemmeno a qualificarsi per il Gran Premio di Monaco, lui che del Principato era il re indiscusso con ben cinque vittorie all'attivo, record che rimarrà imbattuto sino all'arrivo del grande Ayrton. Decide che è troppo, e con grande amarezza si ritira dalle competizioni. Continua però a fare il team manager, ma nel novembre di quello stesso anno, di ritorno da una sessione di prove dal circuito Paul Ricard di Le Castellet in Francia, a causa della nebbia in fase di atterraggio si schianta con il suo aereo nei pressi di Londra. Assieme a lui muoiono anche cinque membri della sua squadra, compreso il giovane e talentuoso pilota Tony Brise.
Fatto unico nella storia della Formula 1, anche il figlio Damon diverrà campione del mondo, nel 1996 su Williams.
IMMAGINE INSERITA A SOLO SCOPO DI DISCUSSIONE e presa da
qui